Caso Kitty Genovese: l’effetto spettatore
Ancora un paio di metri, e la sua vita sarebbe finita, per sempre, a causa di uno sconosciuto. Un killer spietato, pronto a fare qualunque cosa per soddisfare irrefrenabili pulsioni primordiali.
La sua morte avrebbe poi ispirato registi, autori di best sellers internazionali, e … psicologi. Si, psicologi, che cercarono di dare una risposta, agli agghiaccianti dubbi montati dalla cronaca locale. Il 13 marzo del 1964, Catherine Susan Genovese venne accoltellata brutalmente poco distante casa sua.
Un articolo del New York Times mise in risalto l’accaduto, accennando alle circa 38 persone che, assistendo dalle loro case alle urla della donna, non intervennero. Quale potrebbe essere stato il motivo psicologico del comportamento dei vicini? Cosa accadde, realmente, quella notte?
Una storia difficile da interpretare, quella di Catherine Susan Genovese, conosciuta poi in tutto il mondo come Kitty. Secondo l’articolo pubblicato il 27 Marzo 1964 dal giornalista investigativo Martin Gansberg, sul New York Times, nessuno dei vicini, dopo aver sentito le urla, agì. 38 persone, silenti testimoni di un omicidio, non avrebbero né chiamato la polizia, né sarebbero intervenute.
Facciamo un gioco, ti va? Fermati, fermati un attimo, e prova a vivere la scena…mettiti nei panni di una di quelle persone. Immagina di essere un padre di famiglia di mezza età. Stai leggendo un giallo, nella confortevole atmosfera di casa tua. I tuoi figli, e tua moglie stanno dormendo da ore. Tu, incantato dal libro, ti accingi a sorridere, e pensi “caspita, il narratore è molto bravo. Riesce a catapultarti nella finzione letteraria, con le sue macabre descrizioni”.
Divori le ultime pagine che ti separano dall’atto criminale in un attimo. Una strada buia, la vittima che grida aiuto. E ti sembra di sentirle davvero, quelle urla. Sorridi nuovamente, compiaciuto, ancora una volta, dalla narrazione. Poi, però…
Ti sembra di sentirle di nuovo, e ancora, ancora… esci sul balcone, e noti che in fondo alla strada, in uno dei vicoli, qualcuno sta chiedendo aiuto, disperato. Non riesci a vedere bene dove, ma è chiaro che sta succedendo qualcosa. “Aiuto, aiuto, aiutatemii” è una voce femminile.
Noti del trambusto, ma è buio, e non riesci a vedere. E così, semplicemente… non intervieni…
Il colpevole non venne tuttavia catturato. O almeno, non subito.
Winston Moseley, un operatore di macchine da stampa felicemente sposato, venne incastrato pochi giorni dopo. Inspiegabilmente, dopo un breve interrogatorio, mosleney confessò la sua colpevolezza sia per quanto riguarda l’uccisione di Catherine Susan, che di altri casi di omicidio rimasti fino a quel giorno irrisolti.
Anil Aggrawal, professore di medicina forense a New Delhi, nel suo libro Necrophilia: Forensic and Medico-legal Aspects, descrive l’assassino come un necrofilo, quindi come un soggetto sessualmente attratto da cadaveri di individui del sesso opposto. Una motivazione
Moseley ricevette una condanna a morte, poi trasformata in carcere a vita. Considerato incapace di intendere e di volere, fece ancora parlare di sé per due episodi alquanto vivaci, come la fuga dal carcere, e la partecipazione ad una rivolta in una prigione di New York nel 1971. Si spense in cella, il cinque aprile 2016.
Un comportamento apparentemente inspiegabile, che convinse gli psicologi John Darley e Bibb Latané a studiare l’accaduto. In una serie infinita di esperimenti, i due teorizzarono l’esistenza del cosiddetto effetto testimone. Sei uno studente o uno psicologo? Allora saprai certamente di cosa si tratta. Se, al contrario, non lo sei, eccoti una breve spiegazione.
Latané e Rodin, misero a punto un disegno sperimentale alquanto bizzarro. Il campione totale, composto da centoventi ragazzi, venne diviso in due gruppi. Nel primo, i ragazzi, in solitudine, si sarebbero imbattuti in una donna (complice degli sperimentatori) che gridava disperata aiuto.
Nel secondo gruppo, invece, i ragazzi avrebbero comunque incontrato la donna bisognosa, ma sarebbero stati accompagnati da un amico. Dai risultati, emerse che, se in compagnia di altri, i ragazzi intervenivano meno.
Ed ecco spiegato perché, quella notte, il mancato intervento dei vicini. L’esperimento venne pubblicato sulla rivista JOURNAL OF EXPERIMENTAL SOCIAL PSYCHOLOGY, ed ebbe un grande successo. Questo, ovviamente, nel 1969.
Facciamo, però, un passio indietro, tornando alla sera del 27 marzo 1964, quando Kitty Genovese Perse la vita. Può, un omicidio, essere paragonato alla situazione riprodotta dai ricercatori?
Potrebbero, le urla strazianti di chi sta per morire, essere equiparate alla richiesta di aiuto della complice di uno studio scientifico?
Dopo poche settimane dall’uscita, Gansberg ammise alcune imprecisioni. La vicenda non era andata esattamente come riportato dal giornalista. Secondo indagini e studi successivi, infatti, alcuni dei testimoni avrebbero in realtà chiamato la polizia, sebbene in un secondo momento. Quindi, queste ultime informazioni mettono in discussione i risultati ottenuti dagli psicologi?
L’effetto testimone è, a mio parere, una scoperta sicuramente spiazzante, ma di un certo rilievo. Dal 68 sono passati anni, e la ricerca è andata avanti. Così, sono state identificate alcune variabili che influenzerebbero la decisione di intervenire dei testimoni.
Una di queste è, per esempio, la coesione del gruppo. Secondo Rutkowski e colleghi, più un gruppo è coeso, maggiore sarà la probabilità di intervento. Anche le differenze culturali possono sicuramente giocare un ruolo fondamentale.
Se vuoi approfondire l’effetto testimone o altre teorie psicologiche legate all’essere umano, il mio consiglio può essere soltanto uno: leggi “l’animale sociale”, scritto da Elliot Aronson.