01 Gennaio 2022

Il lato oscuro dei social media

Ascolta l’episodio cliccando qui sotto!

Frances Haugen nasce e cresce in Iowa. Figlia di buona famiglia, si iscrive alla facoltà di ingegneria informatica e si laurea nel 2006. Consegue poi un MBA, master in business and administration presso la Harvard Business School nel 2011.

L’MBA è il massimo riconoscimento in ambito economico, in grado di certificare le abilità manageriali delle persone.

Frances è una ragazza sveglia, in gamba, ambiziosa. Cresce rapidamente, lavorando nelle aziende più prestigiose del panorama digitale. Inizia in Google, poi passa a Yelp, Pinterest, ed infine in Facebook nel 2018.

Da qui, la vicenda si complica. Frances Haugen, giovanissima manager con sette anni di esperienza alle spalle in più multinazionali del settore, diserta. Lo fa inizialmente in gran segreto, poi esponendosi in prima persona agli occhi di milioni di americani e persone in tutto il mondo.

Ha così inizio una delle inchieste più famose del nostro presente: the Facebook files. Cosa ha a che fare tutto questo con la psicologia? Non ti resta che scoprirlo con me.

Oggi si parla di storia moderna, di Facebook, divenuto Meta probailmente anche a causa di questo scandalo, e del caso di The Facebook Files.

Dobbiamo però partire da un altro fatto, a metà tra la cronaca e lo spettacolo: the social dilemma.

The social dilemma è un documentario che, per ammissione dei produttori, avrebbe dovuto far riflettere le persone sull’utilizzo dei social media, portando a galla l’amara verità: l’impatto potenziale sugli user comuni è potenzialmente devastante.

Nel documentario vengono approfonditi aspetti fondamentali del mondo social, e di come tale universo potrebbe influire sulla salute mentale degli individui che lo frequentano. Prima di tutto occorre chiedersi se i social siano realmente così utilizzati come tutti credono.

La risposta è, ovviamente, si. Prendiamo per comodità Facebook, che già nel 2017 vede più di 2 miliardi di utenti registrati all’attivo. Cifra che è aumentata nel tempo, fino ad arrivare a 2 miliardi e 800 milioni ad inizio 2021.

Il 50% della popolazione italiana dichiara di usare Facebook. Questo significa che almeno un italiano su due è attivo sul social media, per almeno un’ora al giorno.

Sessanta minuti nei quali può accadere di tutto. In special modo se, ad essere online è un minorenne, o comunque un giovane adulto. Le insidie sono molte. Come abbiamo visto nelle precedenti puntate dedicate a Blue Whale e a Jonathan Galindo, la grande diffusione di notizie, anche se false, può comunque nuocere e portare all’emulazione di condotte comportamentali nocive come la mutilazione e perfino al suicidio.

The social dilemma evidenzia inoltre l’utilizzo dei “nuovi media” in campo politico, sollevando problematiche etiche di non poco peso, o ancora, la manipolazione dei dati degli utenti a fini di marketing senza tutelare gli aspetti legati alla privacy.

Ovviamente, tali notizie al tempo della loro pubblicazione non scalfirono minimamente il colosso, tanto che a quasi dodici mesi dell’uscita di “The social dilemma” Facebook vide un incremento di fatturato del 21%.

E tutto ciò ha dell’incredibile: un documentario che mira a sensibilizzare l’opinione pubblica nei confronti di una presunta pericolosità dell’utilizzo sconsiderato dei social non fa altro che aumentarne la popolarità.

In The social dilemma, però, è possibile scorgere la minaccia: i social media creano dipendenza. Sono stati progettati per essere irresistibili all’uomo, per intrappolare le menti degli utenti.

I risvolti psicologici di un utilizzo smodato dei social sono gravi possono portare a danni permanenti. Ma fin che si tratta di un documentario di netflix, appunto, nessuno prende la questione troppo sul serio.

Poi, dal nulla, la rivelazione. Nel 2021, l’anno seguente all’uscita di The Social Dilemma, il Wall Street Journal rende pubblica l’inchiesta “the facebook files”. Secondo indiscrezioni e fatti di cronaca ben noti, tali documenti rivelerebbero i “piani segreti di facebook”.

E, a fornire le prove agli investigatori fu lei: Frances Haugen. La donna ammise pubblicamente in una nota trasmissione americana il proprio coinvolgimento nei fatti, sostenendo che Facebook in alcuni casi avrebbe agito alle spalle del proprio pubblico. In che modo?

Per esempio, favorendo la proliferazione di fake news, un’arma molto potente in grado di fare la differenza in politica. Inoltre, sempre secondo l’ex manager, l’utilizzo spropositato del social avrebbe impattato negativamente sulla salute dei più giovani. Ben consci di tali fatti, i segnor manager non avrebbero fatto nulla per rendere facebook un posto migliore.

E questo, appunto, secondo Frances Haugen. In realtà, la situazione sembra essere molto più complessa e intricata. Si, perché dare la colpa a Facebook… non serve a niente. Il problema principale affonda le proprie radici nei bui meandri della mente dell’essere umano.

A conti fatti, è bene ricordarsi che si tratta di uno strumento, creato da uomini e donne per altri uomini e donne. Uno strumento inevitabile che rappresenta il futuro, nel bene e nel male. I social media sono un Pharmakon.

Pharmakon, in greco antico può assumere il significato di farmaco salvifico o di veleno in base alla situazione nel quale tale parola viene utilizzata. termini simili prendono il nome di Vox Media, ovvero a metà tra due significati opposti.

Ed è altrettanto esplicativo in tal senso l’esempio sui farmaci, come li intendiamo oggi. Alcune medicine psichiatriche, infatti, possono uccidere se assunte in dosi massicce, provocando appunto il fenomeno dell’overdose.

Visto il titolo della puntata di oggi, vediamo cosa può accadere se sottoposti ad un’overdose da digital. Che fine fa il cervello? Cosa dice la scienza psicologica?

Molto prima dei Facebook Files gli scienziati iniziarono a studiare gli effetti potenzialmente negativi dei social. Inizialmente l’utilizzo spropositato venne definito Problematic Facebook Use. Questo non perché facebook sia il male, anzi… spero che tu l’abbia compreso.

Il nome venne coniato semplicemente perché allora facebook era il social più famoso. Gli effetti osservati erano devastanti, soprattutto sui più giovani. Gli spazi di condivisione digitale, a causa di persone malintenzionate, avrebbero contribuito allo sviluppo di comportamenti violenti.

Uno degli esempi più eclatanti è il ciber bullismo o il fenomeno degli haters, che senza un motivo preciso insultano le altre persone. Purtroppo c’è di più.

Alcuni studi mostrano che sia possibile sviluppare psicopatologie cliniche a causa dell’utilizzo problematico delle piattaforme digitali come appunto la già troppo spesso nominata dipendenza e la depressione.

Per il cervello purtroppo non c’è differenza tra il gioco d’azzardo, l’alcolismo o le app che regalano piacere mediante likes e condivisioni: i meccanismi psicologici sono i medesimi.

Alcuni studi hanno inoltre sottolineato l’impatto negativo sul benessere psicofisico degli utenti, correlando l’impiego smodato dei social a crollo dell’autostima dovuto al paragonarsi a stili di vita o aspetti fisici impossibili da raggiungere, aumento dell’insoddisfazione del proprio corpo e sintomi ansiosi.

E, lascia che te lo ricordi: si tratta di psicopatologie, non di cose che “ma si, tanto alla fine è solo nella tua testa!”. Proprio perché è nella tua testa, dovresti prendertene cura. Se qualcuno ti conficcasse un coltello nel braccio, faresti lo stesso ragionamento? “Ma si, tanto è solo nel mio braccio, poi passa!”.

Il dilemma, parafrasando il documentario di netflix prima citato, non esiste: bisogna muoversi, e subito, per rendere questi utilissimi strumenti più “a misura di persona”, e non solo a misura di azienda. Etica e benessere prima di tutto.

Ricorda: i social media sono un pharmakon, un potenziale problema ma anche una potenziale soluzione…